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Retrato del artista como corsario

Retrato del artista como corsario

El editor y periodista italiano Marco Cicala escribe sobre Vida de este Capitán, las memorias del militar y escritor Alonso de Contreras (1582-1645).

Il 1° ottobre dell’anno domini 1630, un signore prossimo alla cinquantina, che immaginiamo dall’aria truce ma in certo modo accattivante, prese alloggio in una locanda romana dove in soli undici giorni mise per iscritto decenni di vita vagabonda e turbolenta. La sua. Tipo Jack Kerouac. Che però per buttare giù di getto la prima versione di On the Road impiegò il doppio del tempo. E dopandosi con la benzedrina. Per quel ribaldo del Seicento le uniche anfetamine furono invece i propri voluminosi ricordi, più l’umanissima ambizione di essere ricordato dalla posterità. Alonso de Contreras – così si chiamava – ci è riuscito. Altrimenti non staremmo ancora qui a parlarne.

Di queste memorie lo storico Fernand Braudel disse che sono il più bello dei romanzi picareschi, se non altro perché vissuto in prima persona. Tutta roba vera, fin troppo vera. Riscoperta all’inizio del Novecento dopo tre secoli di oblio, l’autobiografia del Capitano avrebbe affascinato scrittori e filosofi: da José Ortega y Gasset a Ernst Jünger, da Benedetto Croce a Leonardo Sciascia, da Javier Marías ad Arturo Pérez-Reverte, che ne trasse robusta ispirazione per confezionare il personaggio dello spadaccino Diego Alatriste, protagonista di una saga-bestseller.

Contreras fu precocissimo assassino, soldato, corsaro, eremita, governatore, rapitore, torturatore, torturato, spia, puttaniere, uxoricida, giocatore, riparatore di torti, trafficone, schiavista, piantagrane senza frontiere, forse sovversivo… Ma a sedurre non è tanto, o non solo, la ridda delle peripezie quanto il tono svelto, antiretorico e di disarmante nonchalance con il quale ci vengono raccontate, e che – pur nella distanza temporale e, diciamo così, “morale” da lui – ce ne rendono il narratore irresistibilmente simpatico. Perché Alonso il terribile si racconta senza sciscì, nella propria spiccia verità di ammazzasette, matamoros, energumeno qualunque. E del passato non sbianchetta i flop: dalle missioni guerresche finite a schifìo alle tante ragazze – tutte a dir vero piuttosto facilotte – che gli vengono soffiate, quasi sempre da amici che riteneva fidati. Sì, il virile Contreras ha una certo talento nel farsi scippare le amanti.

Circostanze, luoghi, personaggi… Fatta tara di qualche inevitabile, e dopotutto perdonabile, svista o millanteria, tutto quel che il Capitano riferisce è sostanzialmente esatto. Sono gli storici a confermarcelo. Dribblando gli incanti del reducismo, i turgori dell’affabulazione nostalgica e autocelebrativa, Contreras si rivela dotato, oltre che di una sincerità, di una memoria fuori dal comune. In lui la foga narrativa non nuoce alla precisione. Non per niente, fu anche cartografo, autore di un minuzioso Portolano del Mediterraneo orientale, oggi custodito nella Biblioteca Nazionale di Madrid.

Che i grandi libri siano sempre contrassegnati se non da un grande incipit quantomeno da un avvio folgorante è certamente un cliché. Ma le memorie del Capitano lo rafforzano. Perché – tra ammazzamenti, processi, castighi, zuffe, fughe, viaggi – nel capitolo iniziale della Vida ci sarebbe già materia sufficiente per una dozzina di buoni romanzi.

Primo di sedici figli, Alonso de Guillén Contreras nasce a Madrid nel 1582 da una famiglia di «cristiani antichi, senza neanche una goccia di sangue moro o ebreo», tiene a puntualizzare d’emblée, e a scanso di equivoci, presentandosi al lettore. Ma nel prosieguo del racconto la spagnolissima ossessione per la limpieza de sangre, la “purezza” di stirpe, resterà ridotta a sparuti accenni, in un libro che è meticcio nel midollo: un frullato di lingue, culture, religioni, mentalità, costumi. A riflesso del principale scenario entro cui si svolge: il Mediterraneo dei vascelli catto-imperiali e della superpotenza turca, dei pirati berberi e dei commercianti ebrei, degli affaristi veneziani e dei pope greci, delle coste razziate e delle genti brutalizzate, schiavizzate, sfollate, smerciate. Un mare favoloso ma tragico come pochi. In versione aggiornata, è rimasto atrocemente uguale.

Come noto, noialtri esseri umani veniamo al mondo nudi e sporchi di sangue. Nella letteratura picaresca – alla quale per certi versi il memoir di Contreras si raccorda – sangue e nudità sono elementi iniziatici del primo fra i riti di passaggio: introducono l’individuo in quel territorio nemico che è la vita stessa. Un posto strepitoso e infame, irto di insidie, tradimenti, crudezze, figli di puttana dietro ogni angolo. Un mondo di lupi. Il giovane Alonso vi irrompe con un omicidio: durante una rissa accoppa a coltellate un compagno di scuola. Secondo un altro topos letterario dell’epoca, è il delitto che strappa il protagonista alle proprie origini; lo costringe all’esilio per poi tuffarlo tra le braccia di un’esistenza raminga e rocambolesca. E tuttavia, a decidere il suo destino è solo in parte la fatalità. Perché sin da adolescente Contreras ha il combattimento nel sangue. Allergico al lavoro e a forme di obbedienza che ritiene vili, aspira a una vita agonistica, in arme: non chiede di servire altri che il Re. «Ragazzo mio, sei appena uscito dal guscio e vuoi già andare alla guerra!» protesta, inutilmente, la madre davanti ai bellicosi propositi del moccioso.

Contreras nasce dunque fuggitivo. Nomade. Déraciné. Lo rimarrà fino alla fine. I primi averi glieli fottono al gioco, lasciandolo spennato, ossia nudo come mamma lo fece. È uno scugnizzo dall’indole violenta e insieme gaudente. Per darle sfogo non c’è niente di meglio che arruolarsi. D’altronde Alonso ha la “fortuna” di vivere in quello che, nel 1641, l’acutissimo diplomatico e scrittore ferrarese Fulvio Testi definì, in presa diretta, il “secolo del soldato”: il XVII. Nell’Europa del Seicento gli anni di, relativa, pace furono non più di quattro. Mai prima d’allora gli eserciti erano stati tanto affollati e numerosi. Chi se ne intende quantifica in 10-12 milioni gli europei mobilitati in quel periodo. Cifra monstre, considerata la demografia del tempo. Si andava sotto le armi per non crepare di fame, per sottrarsi alla giustizia o alle vessazioni di un padre padrone. Ma anche cedendo – quasi sempre illusoriamente – al richiamo dell’avventura, il viaggio, la scoperta, il guadagno e il pericolo che conferiscono onore, reputazione. Del resto, in quell’Europa sconvolta dalle carneficine, il confine tra una vita in guerra o senza guerra poteva farsi talmente labile – si rileggano a riguardo le mirabili pagine del Leviatano di Hobbes, d’un paio di decenni successivo alle memorie del Capitano – che tanto valeva coscriversi e buonanotte.

Nel XVII secolo, la distinzione tra “esercito” e “soldataglia” appare capziosa: quei militi erano gente pagata poco, male o mai. Si integrava perciò con saccheggi e affini. Durante la guerra dei Trent’anni circolava un detto: «Per ogni soldato ci vogliono tre contadini: uno che gli dia alloggio, uno che gli dia sua moglie, e uno che prenda il suo posto all’inferno». Antropologicamente, Alonso de Contreras appartiene a quel profilo di combattente. Benché, da “levantino” – cioè da soldato impiegato nella flotta mediterranea – goda di più largo margine di manovra e maggiore libertà di iniziativa rispetto ai commilitoni di terra. «Non è dubbio che solesse violare, sempre che gli piaceva, ogni legalità» scriveva, eufemistico, Benedetto Croce. Incursore, guastatore, razziatore, “pirata” al servizio di sua maestà El Rey Católico, il Capitano si muove spesso e volentieri senza copertura, sconfinando oltre ogni mandato. Proprio come quei tipacci temerari e rapaci, i conquistadores, che recarono in dote alla Spagna gli eldorado americani sovente in barba a gerarchie militari, catene di comando, direttive politiche.

Feroce, resistente, spregiudicato, intelligente… Non c’è partita: tra Cinque e Seicento, lo spagnolo è il migliore soldato del mondo. «Dovunque andassero portavano desolazione. Erano una cieca macchina da guerra che funzionava inesorabile come un terremoto o un uragano» ricordava José Ortega y Gasset in un entusiastico saggio del 1943 dedicato alla Vida del Capitán. In Contreras riconosceva la quintessenza della bassa forza, della ciurma, della manovalanza bruta che aveva reso potente un Paese audace, ma ispido e bigotto, trasformandolo in un Impero globale. Il Capitano è il prototipo del «hombre suelto», l’individuo svincolato da radici e disciplina; una figura liminare, tra il vecchio guerriero medievale, che era espressione di una comunità coesa, e il militare inquadrato nei freddi schemi organizzativi della nazione moderna. Un soggetto di transizione che, pur essendo pedina rimessa agli arcani scacchismi della “ragion di Stato”, è ancora capace di vivere la vita soldatesca come un’avventura.

Con iattanza che sarebbe divenuta proverbiale e addirittura caricaturale – contribuendo non poco alla fabbricazione del pregiudizio anti-spagnolo (si pensi soltanto a quant’è marcato nei Promessi sposi) – quegli uomini si pavoneggiavano dalle Fiandre al Mediterraneo alle Indie in bizzarre tenute che si fa fatica a definire “uniformi” tant’erano “difformi”. Le divise militari standardizzate sarebbero entrate in uso più tardi: il soldato “modello Guerra dei Trent’anni” si veste con ciò che ha depredato dopo una battaglia, che ha sottratto al cadavere del nemico o del compagno, che è riuscito a comprare qua e là. È il papagayo, il pappagallo, come veniva soprannominato ironicamente per via dell’aspetto multicolore da uccello tropicale che lo faceva assomigliare a un arlecchino borioso e grottesco, ma nondimeno temibile.

Con elisioni che oggi diremmo da linguaggio cinematografico, le peripezie del Capitano si susseguono utracinetiche. Comprimono i limiti dello spazio-tempo fino a polverizzarli: adesso siamo a Malta, una riga più sotto nelle Antille, subito dopo di nuovo in Spagna, a Pantelleria o in Medio Oriente. «Da queste memorie si potrebbero ricavare diversi film in technicolor» sorrideva Ortega. In effetti un film ne venne tratto, ma oscuro e quantomai bislacco. Titolo: La otra vida del Capitán Contreras, anno 1955, regia dello spagnolo Rafael Gil. Vi si immaginava che, ibernato in una specie di letargo, il prode si risvegliasse nel Ventesimo secolo, con lo spaesamento che è facile prevedere.

«Il personaggio è azione» annotava Francis Scott Fitzgerald in un famoso appunto. Ma le memorie di Contreras hanno casomai qualcosa di hemingwayano. Perché – con scrittura paratattica, orizzontale, poco incline alle subordinate – si spalmano sul piano di una narrazione puramente fattuale dove quel poco di psicologia affiora tutt’al più nei dialoghi. Nell’autobiografia del Capitano nessuno riflette: si agisce e basta. Poi si vede. «D’abord je m’engage, puis je pense» – tanto per cominciare mi butto nella mischia, soltanto dopo penso – diceva Napoleone, citato da Ortega. Il quale, pur nell’ammirazione, notava come la vita dell’avventuriero sia quella di un «vecchio adolescente», manchi cioè di traiettoria, profondità prospettica, essendo «una serie spasmodica di spari automatici eseguiti d’istinto», un coagulo di momenti, esperienze istantanee, episodi puntiformi che disegnano un ordito senza strutturarsi in una trama. Secondo Ortega, El aventurero «viene al mondo con una fantasia atrofizzata. È incapace di immaginare il proprio futuro. Guarda all’avvenire, incluso il più immediato, e non vede nulla». A compensazione di tale carenza, l’uomo d’azione non mette freni alla «propria impulsività che, abbandonata a se stessa, cresce ipertrofica». La sua audacia deriva «in buona parte dal fatto che non riesce a figurarsi i pericoli e, più in particolare, la propria morte»; vede «la morte dell’altro, mai la sua». Per quanto si offra a noi come «il più divertente degli spettacoli», quella dell’avventuriero – individuo “sublime”, “sovrano” – è paradossalmente anche «un’esistenza vuota». Vacua causa soverchio accumulo di attimi consumati, bruciati senza costrutto, disseminati e in qualche modo inerti. Ha perciò del prodigioso che il Capitano sia riuscito a rimettere insieme quell’esagerazione, quel troppo pieno che è il proprio passato, e che però ci viene appunto restituito con una narrazione centrifuga, dove – per quanto incredibili – le imprese si inanellano a raffica come puntate di un “serial” che mai riuscirà a organizzarsi in una saga compiuta.

Nel libro, il primato dell’azione non è ovviamente una scelta stilistica. Avviato a Roma e ripreso tre anni più tardi a Palermo per restare inconcluso, il memoriale di Contreras non aveva mire artistiche, non era destinato a un lettore: voleva essere semplice resoconto della vita di uno che dopo averne fatte tante per il suo Re, il suo Paese, la sua cristianissima fede sperava di ottenere riconoscimenti, titoli, uno status. Ciò detto, si è forse troppo insistito nel ritenere quello del Capitano il testo naïf di un illetterato, un esempio di “art brut”, frutto d’un talento grezzo e spontaneo. Certo, Alonso è un figlio del popolo, ma  – cosa non esattamente comune, ai tempi – sa scrivere e far di conto; più tardi, a trasformarlo in memorialista sarà l’incontro, del quale sappiamo pochissimo, con Lope de Vega, sommo drammaturgo del Siglo de Oro, che a sua volta aveva dietro di sé movimentati trascorsi da militare, donnaiolo, manigoldo. Assumendolo come alter ego, Lope dedica a Contreras – di vent’anni più giovane – la commedia El Rey sin reino e forse convince l’amico a misurarsi con la scrittura dando semplicemente fondo ai suoi strumenti artigianali, alla sua verve di affabulatore antico, tanto scaltrito nella vita quanto privo di astuzie letterarie per raccontarla – sebbene in descrizioni e dialoghi qualche suggestione colta o teatrale nell’autobiografia non manchi.

Partecipata, disinvolta e quindi perfettamente in linea con la personalità anarcoide del Capitán, la vecchia traduzione longanesiana di Ettore de Zuani che – salvo sporadici aggiornamenti– qui si ripropone, è invecchiata. Ma invecchiata bene. La sua patina retrò giova al testo. È la stessa versione che lesse Leonardo Sciascia quando, nel 1969, recensì il libro in un intervento poi rifluito nella raccolta La corda pazza. Appassionato di cose ispaniche, Sciascia riconduceva i ricordi di Contreras «da un lato alla letteratura picaresca spagnola; e dall’altro, anche se in tono minore, a quella linea segnata dalla Vita del Cellini, dalle Memorie di Casanova, dai romanzi e dai testi autobiografici di Stendhal». Ma, da accanito “roditore” di documenti storici qual era, Sciascia ne rilevava pure occasionali imprecisioni e sospette fanfaronate. Una su tutte: un giorno, a Palermo – siamo all’incirca nel 1606 – il Capitano pizzica la moglie, una facoltosa vedova spagnola residente a Monreale, a letto con l’amante. Senza esitazioni, Alonso li trafigge entrambi. Un colpo di stocco e tanti saluti. «Una mattina la loro mala fortuna volle che li sorprendessi insieme; e morirono. Che Dio li abbia in gloria se in quell’estremo istante si pentirono». Delitto d’onore coi controfiocchi. Ma allora perché, così «attenti a quello che gli spagnoli facevano in città, i cronisti palermitani non registrano l’avvenimento»? si chiede Sciascia. «Un così bel delitto d’onore non poteva sfuggire, se veramente si fosse verificato. O il capitano sbaglia l’anno; o il suo delitto d’onore non c’è stato». «D’altra parte» aggiunge, «sarebbe curioso che uno spagnolo di allora si qualificasse marito tradito soltanto per raccontare la spacconata dei due omicidi e dell’impunità. Perché dopo l’omicidio, e non per fuggire, il capitano se ne andò in Spagna: ad illustrare certe sue pretensioni a Corte». Insomma: ponendo che non l’abbia commesso, per quale motivo Contreras si attribuisce l’uxoricidio? Perché nella cultura dell’onore scannare la moglie fa curriculum? Assai probabile. Ma la certezza non l’avremo mai.

Comunque il vero enigma è un altro: riguarda il misterioso mulinello di attrazione e repulsione che, quasi quattro secoli dopo, un ceffo della fatta di Contreras è ancora capace di agitare in di noi. Se passassero per le mani di un professore americano in una di quelle università oggi governate dai criteri – sedicenti progressisti – del politically correct, le memorie del Capitán non ne uscirebbero vive; verrebbero scorticate come un concentrato documentale di tutte le nequizie imputabili al vecchio homo occidentalis: machista, femminicida, colonizzatore, genocida… Però leggere il passato con lo sguardo umanitario della contemporaneità è un accecamento ideologico pari a tanti altri. È banale rammentarlo, ma per secoli gli esseri umani si sono conosciuti anche o soprattutto combattendosi. Il miscuglio è avvenuto in quell’incontro che è lo scontro. Non ci si mescolava chiacchierando a cena, ma dandosele di brutto fino a diventare nemici intimi. Anche per questo nei ricordi del Capitano troviamo un lussureggiante campionario di violenze, soprusi, efferatezze, ma praticamente mai pregiudizio verso chi sta dall’altra parte. Leggendo l’autobiografia, è più di un’impressione che don Alonso abbia maggiore rispetto per l’avversario musulmano che non per i propri cattolicissimi superiori. La stessa fede cristiana è vissuta da Contreras senza enfasi messianica e in modo tutto sommato abbastanza light. Che poi nella sua «assenza ordinaria di scrupoli esistessero tuttavia, e si facessero sentire, scrupoli religiosi, improvvisi ritegni e si desse luogo a intermezzi di penitenza e di ascesi, non è cosa troppo discorde dalla psicologia dei briganti» osservava Croce.

Come in moltitudini di uomini a lui coevi, nel Capitano non c’è ombra di attrito fra cristianesimo e violenza. E quando, tra un massacro e l’altro, Alonso è di passaggio in Spagna, lo vediamo tornare dalla vecchia madre per chiedere la sua benedizione: in obbedienza al sacro “mammismo” mediterraneo che si è sempre autocollocato al di sopra di ogni morale.

Che fine abbia fatto el Capitán nessuno è in grado di dire. Le sue memorie si prolungavano forse fino all’anno 1640, ma i fogli relativi all’ultimo periodo sono andati perduti. Manuel Serrano y Sanz, lo studioso che nel 1900 ritrovò il memoriale, riferiva in una nota che nella chiesa madrilena di San Sebastián furono rinvenuti atti di morte relativi a due Alonso de Contreras «entrambi sepolti da poveri, con la pubblica carità». Ma «crediamo che né l’uno né l’altro sia il capitano di cui pubblichiamo l’autobiografia» chiosava Serrano, «quantunque non si possa neppure negare che la ruota della fortuna abbia dato siffatta volta, specie in quei tempi». Tempi nei quali, assicurava ancora Thomas Hobbes, la vita di donne e uomini era «brutta, incerta, bestiale e breve». Costantemente minacciata. È in quelle condizioni che, veleggiando tra il Tirreno e l’Egeo, Contreras cercò di strapparle se non un senso, diciamo una specie di disperata pienezza. E non da paladino della fede quanto da antieroe degno d’una sceneggiatura alla Monicelli. Che, non a caso, dedicò ai disgraziati picari spagnoli un film, ma purtroppo tra i suoi più infelici. Sulla base di antiche cronache italiane, Croce sospettava che il Capitano fosse finito ammazzato in un cesso. A coronamento di quell’intenso trash che è la vita picaresca. E in fondo un po’ anche la nostra.

Madrid, marzo 2018

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